Di lui hanno scritto
 
FIORENZO DEGASPERI
Loris Angeli: della scultura, dell’anima e dello spirito





Vedere il mondo in un granello di sabbia
e il paradiso in un fiore selvatico,
tenere l’infinito nel palmo della mano,
e l’eternità in un’ora

William Blake




Attendi, che la più perfetta guida che possa avere e migliore timone si è la trionfal porta del ritrarre de naturale. E questo avanza tutti gli altri esempi, e sotto questo con ardito cuore sempre ti fida, e specialmente come incominci ad aver qualche sentimento nel disegnare. Parole di Cennino Cennini nel suo Libro dell’arte, scritto a scavalco tra il periodo medioevale e quello moderno. Per essere più precisi, Cenino da Colle, nato vicino a Firenze nel 1370, di chiara cultura artistica padovana, città dove trovò lavoro fin da giovane, rimarca che le proporzioni umane derivano direttamente dall’alto, come fossero lo specchio fedele del Divino: Nel principio che Iddio onnipotente creò il cielo e la terra, sopra tutti animali e alimenti creò l’uomo e la donna alla sua propria immagine, dotandoli di tutte le virtù. Alla sua propria immagine è quello che chiede ancor oggi la committenza allo scultore Loris Angeli, maestro del legno e del marmo. Ha appreso le tecniche di ricavare forme e volumi dal mondo ligneo grazie agli studi intrapresi nella scuola d’arte di Pozza di Fassa. Ha affinato l’uso dello scalpello cercando di seguire le non facili vie delle vene che il marmo offre con discrezione a chi lo ama all’Accademia di Belle Arti di Carrara, regno incontrastato del biancore e della purezza della materia.
Moltissime chiese italiane vedono, tra i loro arredi, le sculture dell’artista solandro così come la committenza privata desidera avere per sé la materia ritratta al naturale. L’artista sa offrire una scultura religiosa che segna lo scorrere del tempo, estraendo e modellano dai vari legni ciò che è immagine di Dio, della Madonna, dei Santi. Al tempo stesso, i rappresentanti dell’empireo religioso cristiano, hanno le fattezze della semplicità, dell’immediatezza. Visi, torsi, caratteri: li si possono incontrare dietro l’angolo di un vicolo di un paese alpino, girovagare nella piazza, chinarsi alla fontana per raccogliere l’acqua generatrice. I labirinti della pelle seguono le strade della fede e la sgorbia delinea e rimarca una quotidianità rassicurante e avulsa da ogni contesto di morte e di passione. Le opere affondano in quell’humus visivo chiamato da Guido Ballo con il termine di occhio comune e dalla conseguente possibilità di instaurare immediatamente un colloquio di primo grado con il mondo dell’arte e dell’estetica e, talvolta, identificarsi. Il modo di portare il lungo mantello appoggiato sulle spalle di San Rocco o Sant’Antonio, la verticalità delle pieghe del drappeggio della Madonna, la semplicità dell’acconciatura del Cristo, ogni particolare del linguaggio plastico esprimono la dignitosa eleganza della semplicità, della riconoscibilità.
Al contempo Loris Angeli prosegue una ricerca interiore cercando, oltre la dimensione della committenza, la strada dell’anima. Della sua e quella della materia che in quel momento lavora. Con delicatezza, rispetto, conoscenza e circospezione. Passo dopo passo, adagio, accarezzando con le dita le venature, scoprendo le ramificazioni, ascoltando ciò che la corteccia pelle trasmette a chi sa ascoltare e capire il segreto di secoli di vita.
Nascono altre opere, molto più profonde. L’intaglio diventa meno deciso, accogliendo il dialogo con la materia, recedendo dall’invadere totalmente territori che non gli appartengono. Queste opere sono sicuramente più “sacre” di quelle evidenti e riconoscibili citate precedentemente Sacre se intendiamo con questo termine la capacità del segno di offrirsi come aisthesis, estetica, cioè sensazione, sentimento, moto psichico irrazionale. Segno che diventa lentamente ma inesorabilmente simbolo, modificandosi, ampliandosi, respirando le energie che scuotono la terra tramite le radici, che sfiorano il cielo tramite i rami e le foglie.
Mentre il segno indica una cosa conosciuta, finita e comunica un’informazione, il simbolo esprime l’intangibile, trascende l’apparenza esteriore per incontrare la realtà trascendente che lo esprime. I torsi, le braccia alzate, le gambe ben piantate a terra trasformate idealmente in radici. Essenzialità, volumi giocati all’interno di un sottile paradigma di vuoto-pieno, di assenza-presenza. Il legno-albero si offre come materia prima da lavorare. L’artista ne coglie le potenzialità, ne modella le curve, segue l’indole che il tronco stesso ha assunto dopo anni di vita, rispettando inclinazioni, torsioni, protuberanze. Che diventano arti, seni, corpi. Simboli della fertilità, della potenza dell’umanità, di ipotetiche scale tra il qui e il lassù, di quel sacro che è insito nella materia stessa. In quell’offrirsi non più come statua ma come ombelico del mondo, tramite tra la terra/ctonia e il cielo/universo. La scultura è il mezzo in cui incanalare le forze e le energie. Uno scambio continuo tra l’alto e il basso e viceversa. Per molti, gli Dèi e i Santi, hanno perso la capacità di scendere e di risalire, di accostarsi all’umano, di aiutarlo, di allontanarlo dalla falsa via, per poi risalire nei gironi dell’empireo siderale. O su qualche cima avvolta dalle nevi perenni o dalle nebbie mimetizzanti. Per chi non crede il Sacro è diventato malattia.
Per chi invece sa ascoltare il rumore di sottofondo che ogni legno emana, ode antica del caos primordiale diventato con il tempo ordine ed eco della parola Divina, la scultura è qualche cosa di vivo, che muta nel tempo. Uomini e donne che diventano centauri, in una commistione di umano/bestiale, nella consapevolezza che l’uno e l’altro appartengono all’uomo stesso. Che non è diviso in buono e cattivo, bene e male. E’ tutto e il suo opposto: il legno, così come il marmo, racchiude ogni compiutezza, l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine. E ogni albero è ancora una scala molto frequentata da dèi e Santi ed è possibile incontrarli se per vita religiosa intendiamo credere che esiste un ordine invisibile e che il nostro bene supremo è l’adattamento armonico ad esso. In questa convinzione e in questo adattamento consiste l’atteggiamento religioso dell’anima.
Scultura di valori, quindi quella del nostro artista, opere dell’anima, sguardi profondi dentro di sé per scoprire che ciò che pensiamo e intendiamo è comune ad altri. L’esilità e l’apparente fragilità nella possente forma della scultura diventano emergenza dell’anima per salvare quell’armonia tra l’io e il mondo altrimenti compromessa da una modernità e da una razionalità che avanza e distrugge ogni riferimento spontaneo tra l’alto e il basso, la natura e l’uomo, tra il villaggio e la foresta.
Per questa paura nella perdita d’identità, della sicurezza, del delicato equilibrio e dell’armonia, che certe figure mostrano il contrasto tra il pieno e il vuoto. Sembra quasi che una testa porti con sé il suo doppio oscuro, buio, vuoto. Il risultato è una dualità tra la pienezza, il fine, la completezza e l’integrità e il vuoto, lo svuotamento, l’abisso. Fa paura un mondo fatto di fessure, di svuotamenti, di interstizi che si aprono improvvisamente davanti a noi. Il disordine e la disorganizzazione risiedono nei buchi, negli intervalli, negli abissi che il lavoro rituale si adopera instancabilmente a riempire. Perché al vuoto, che è il non ancora accaduto, corrisponde l’assenza della parola. E questa assenza può essere angosciosa. Loris Angeli non ha risolto la contraddizione pieno/vuoto, assenza/presenza. Semplicemente ha seguito una vecchia via, quella dell’incorporamento e della rappresentazione onnicomprensiva. Dentro ogni scultura c’è il vuoto e il pieno, ambedue la faccia dell’altro. Come negli antichi testi veda, base irrinunciabile ed ortodossa della religione preinduista: se il vuoto è il male bisogna combattere o fuggire. Allo stesso tempo, però, è una divinità, Nirrti, che occorre propiziarsi: riconoscendola innanzitutto, là dove si trova, nel suo regno di cavità e di fessure, e rendendole un culto sotto forma di oblazioni versate in tali orifizi. La nirrti è quindi la lacuna e l’abisso. Occorre aggirarla, evitarla, e nello stesso tempo neutralizzarla o conquistarla: o anche utilizzarla nel sacrificio del tronco diventato scultura rispettandone la sua anima e il suo essere frutto della madre terra.
Una dualità vuoto/pieno superata in modo armonico ed intelligente in alcune opere. L’Urlo della natura e La falena sono veri e propri capolavori simbolici di purezza e trascendentalità. Se si cerca il sacro è qui che si trova, che ha la sua dimora. Due forme lavorate dalla natura, accarezzate dalle mani dell’artista, lasciate incompiute perché già perfette, si offrono organicamente come luoghi della meditazione, della riflessione. Una falena si è posata su una delle sommità. La farfalla notturna, simbolo dell’anima che aspira alla trasmigrazione e alla mutazione, alla ricerca continua del divino e consumata dall’amore mistico. Un tema ricorrente nella letteratura mistica persiana. Nell’altra opera troviamo, sempre al vertice, un ramoscello d’olivo, simbolo di pace, di quiete, di dolcezza e purezza. Ma anche di vittoria e di ricompensa e in questa veste è attributo di Atena, la quale si era conquistata il primo olivo vincendo il litigio con Poseidone.
Due opere queste dell’Urlo della natura e La falena che segnano profondamente il significato spirituale di una consumata abilità artistica e la relazione che esiste con un certo modo di vivere, di conoscere il mondo, di concepirlo e di immaginarlo. Ogni forza produce una forma e Angeli Loris capisce e interpreta l’energia del mondo vegetale e minerale, offrendoci nuovamente delle relazioni armoniose fra le parti, tendendo e ricercando continuamente la perfetta unità formale.

Fiorenzo Degasperi